C’è un passaggio profondo in Siddharta di Hermann Hesse, in cui Vasudeva, personaggio chiave del libro, rivolgendosi a Siddharta che soffre per il figlio, dice:
“Ma anche se tu morissi per lui dieci volte, non potresti sollevarlo dalla più piccola particella del suo destino.”
Queste parole mi sono sembrate familiari, perché ho provato sensazioni simili più volte: non possiamo vivere al posto degli altri, nemmeno per proteggerli dal dolore.
Anche quando l’amore è profondo, come quello di un genitore per un figlio, in questo caso, è fondamentale ricordare che ognuno segue il proprio cammino.
Un altro passaggio che tocca profondamente questo tema è tratto da “Il Profeta” di Kahlil Gibran:
“I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa.
Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi,
e sebbene stiano con voi, non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
poiché essi hanno i propri pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi, ma non alle loro anime,
perché le loro anime abitano la casa del domani,
che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni.
Potete tentare di essere simili a loro,
ma non cercate di renderli simili a voi,
poiché la vita non procede a ritroso e non s’attarda sul passato (…).“
Lo yoga ci insegna il valore del non attaccamento (Vairagya), non come rinuncia ai sentimenti, ma come capacità di amare senza possedere, di lasciare spazio a chi amiamo per crescere, sbagliare e trovare la propria strada.
Un concetto semplice da comprendere a parole, ma complesso da mettere in pratica,
specialmente quando i legami sono profondi, perché chi parla non è il nostro essere razionale.
ll confine tra amore e attaccamento è molto sottile.
Spesso, nel tentativo di proteggere chi amiamo, proiettiamo su di loro le nostre paure, i nostri desideri o la necessità di sentirci utili.
Lo yoga ci invita a porci una domanda fondamentale: sto offrendo supporto o sto cercando di controllare?
Allo stesso tempo, lo yoga ci indirizza sempre verso una responsabilità personale nell’agire.
Non possiamo cambiare gli altri, ma possiamo lavorare dentro di noi per vivere in modo più sereno anche sentimenti complessi e profondi.
Passo dopo passo, la pratica ci offre strumenti per osservare e trasformare il nostro rapporto con l’attaccamento, aiutandoci ad accogliere le emozioni senza esserne sopraffatti.
E quindi merita iniziare ad allenare il non attaccamento durante la pratica.
Il non attaccamento non riguarda solo le relazioni, ma anche il rapporto con noi stessi: aspettative, obiettivi e modo in cui affrontiamo la vita.
Nella filosofia yogica, questo principio si esprime essenzialmente in due aspetti:
- Vairagya, il distacco dalle emozioni e dai desideri, che porta a osservare senza farsi travolgere.
- Aparigraha, il non possesso, che invita a lasciare andare ciò che è superfluo per vivere con più leggerezza.
Nella pratica, Vairagya aiuta a non identificarsi con i limiti del corpo e della mente, mentre Aparigraha insegna a rispettare il processo senza forzature né aspettative rigide.
Il sottile aspetto nascosto del lasciare andare è quello di creare spazio per il nuovo.
Creare spazio, accogliere.
Lo yoga ci invita a vivere ogni cosa con presenza e apertura, accettando che tutto è in continuo cambiamento.
Più ci alleniamo a lasciare andare, più impariamo a stare in equilibrio con ciò che accade. E qui possiamo vederci molte cose, materiali e non. Sfioriamo il concetto di minimalismo, della leggerezza che lascia il liberarsi dal superfluo, anche dei “no” che avevamo bisogno di dire.
L’impermanenza come compagna, la presenza da indossare nel cammino.